guerra

A che titolo uno psicoanalista può decidere di parlare di un film? Possiede un sapere particolare che lo può differenziare da quello di un altro spettatore?
Uno psicoanalista può parlare della violenza, ovviamente. Può parlare della violenza agita, di quella subita, delle vittime e dei carnefici. Può parlare degli aspetti clinici di queste situazioni, avendo spesso in cura pazienti che hanno subito in un modo o in un altro delle violenze, fisiche o psicologiche; oppure pazienti che di tali violenze sono stati gli autori. Può avanzare idee, suggerimenti, proposte su come reagire all’umiliazione, al dolore, alla sofferenza subita od agita. Può anche in fondo spingersi sui sentieri etici: esprimere cioè il proprio parere su cosa fare contro la violenza, oppure, come nel nostro caso, disquisire se certe rappresentazioni della violenza possano produrre un effetto catartico o piuttosto contagiare con le loro immagini suggestive gli individui più fragili.

Ma a che titolo può però parlare di cinema uno psicoanalista, definito in quanto tale e non solo come semplice spettatore, anche se spesso acceso cinefilo? La domanda che pongo é retorica perché questo stesso libro e la rassegna cinematografica che l’ha preceduto e quelle che lo seguiranno partono dal presupposto che sì, effettivamente, in quanto psicoanalisti abbiamo qualcosa da dire sul cinema e su alcuni specifici film.

Occorre però anticipare che la riflessione di uno psicoanalista sul cinema presenta alcuni problemi di tipo scientifico/metodologico. Non intendo tediare il lettore impegnandolo a seguire una dotta disquisizione teorica, ma semplicemente, dopo avere introdotto alcuni elementi di riflessione a riguardo, esporre alcune personali considerazioni.

Innanzitutto esamineremo succintamente i complessi rapporti tra l’atto del “vedere” un film e l’atto del ”pensarlo”, intesi come attività parallele e complementari, cioè l’aspetto percettivo della visione filmica e la riflessione sull’oggetto di tale visione.

Successivamente discuteremo i rapporti intercorrenti tra questi aspetti percettivi e cognitivi e l’attività interpretativa analitica, applicata non immediatamente all’oggetto della visione, bensì appunto agli sviluppi affettivi e cognitivi che da tali processi percettivi e riflessivi originano, e ai quali a loro volta danno origine.

Dato il titolo del libro e della rassegna cinematografica che lo ha preceduto, cercherò poi a titolo esemplificativo di soffermarmi sui film che rappresentano la violenza, in particolare sui film di guerra, anche se non è questa la sede per una trattazione troppo approfondita di questo tema, peraltro estremamente interessante dal punto di vista della nostra rassegna.

Vedere un film
Numerosi sono gli studi sul fenomeno della percezione cinematografica, soprattutto da parte di studiosi della psicologia della Gestalt, tra i quali possiamo ricordare, a cavallo tra la psicoanalisi e la Gestalt, i lavori pionieristici di Musatti. Molte ricerche sulla psicologia della percezione hanno poi trovato riscontri nelle tecniche cinematografiche e in seguito in quelle, leggermente differenti, televisive.

I meccanismi della percezione e dell’attenzione sono quindi alla base della possibilità di visione di una proiezione cinematografica, e a sua volta il fenomeno della percezione cinematografica permette lo sviluppo di una comprensione più sofisticata dei meccanismi della percezione.

Il cinema veniva considerato ai suoi albori, e agli albori della psicologia della percezione, come un fenomeno illusorio, nel senso della illusorietà della visione del movimento ottenuta dalla rapida proiezione di una serie di fotogrammi; la percezione visiva veniva infatti considerata fedele rappresentazione della realtà esterna.

Non è intenzione di chi scrive riferire le ricerche e gli studi sulla percezione cinematografica. Li accenno qui per sottolineare come l’atto del “vedere” una rappresentazione cinematografica non possa essere ritenuto equivalente all’atto di “vedere” la stessa scena dal vivo. È presente nella proiezione cinematografica un’insieme di elementi attivi di manipolazione della realtà, che trovano spazio nel complesso sistema della visione, della percezione e della attenzione della mente umana, e che vengono poi elaborati a livello cognitivo, dando origine appunto a quello che noi chiamiamo il fenomeno della percezione di un film.

Quando guardiamo un film, cioè dobbiamo tenere conto che se l’attività della percezione é reale, ovviamente, non é però reale l’oggetto che viene percepito, allo stesso modo come é invece reale la percezione di un dipinto o l’ascolto di una sinfonia. Al cinematografo cioè noi percepiamo una realtà già manipolata al suo inizio da un insieme di elementi, più che in ogni altra percezione di produzioni artistiche diverse. Al cinematografo c’é un’illusione di realtà che ci fa dimenticare che stiamo percependo un film e non quella realtà.

Tali elementi costituiscono nel loro insieme quello che noi chiamiamo il “linguaggio” di un film. Le inquadrature, le panoramiche, il tipo di montaggio ne determinano il ritmo e sono scelti in base alla scuola di appartenenza e alla scelta stilistica derivante.

Il linguaggio cinematografico si distingue da altri linguaggi artistici (pittura, letteratura, musica) non per il suo contenuto, o per i suoi messaggi particolari o per raffigurazioni originali, bensì proprio per le sue caratteristiche specifiche di linguaggio cinematografico, sia per le sua qualità fisiche e percettive che per i suoi aspetti formali e strutturali. Non abbiamo cioè un messaggio specifico del cinema in quanto tale, come del resto non abbiamo un messaggio specifico della letteratura né della musica e così via, o una loro funzione in quanto tali.

Parlare quindi di cinema implica allora parlare non del contenuto di un singolo film o di più film, ma dei tratti caratteristici del linguaggio di quel film, relativi alla modalità espressiva prescelta dall’autore.

Il linguaggio cinematografico é un mezzo espressivo che é tale in quanto si fonda sulle immagini; é soprattutto un linguaggio che ha molto a che fare con la percezione, e la sua specificità rispetto ad altre forme di rappresentazione artistica é poi quella che come psicoanalisti andiamo a vedere.

Molti studiosi hanno definito il cinema come una “tecnica dell’immaginario” (C. Metz, 1977), non solo poi perché rappresenta sempre, come abbiamo visto, una finzione, anche là dove esso cerca di essere fedele documentario della realtà, ma anche perché riesce grazie appunto alla sua essenza illusoria, a rappresentare il desiderio di evasione e di illusione dell’animo umano.

Mi soffermo su questi concetti, anche a rischio di apparire ripetitiva, in quanto é fondamentale ribadire i limiti e i diritti, chiamiamoli pure così, di una interpretazione psicoanalitica di un film. Che cosa serve infatti interpretare la sceneggiatura, leggere la trama di un film attraverso una lente psicoanalitica? Possiamo aggiungere qualcosa di particolare rispetto ad altre più competenti letture critiche? A mio avviso no. D’altra parte nel nostro lavoro di psicoanalisti non ci azzarderemmo a sottoporre un paziente ad un simile trattamento; la trama della sua vita, breve o lunga che sia, sappiamo verrà raccontata molte volte durante l’analisi con continue modifiche date dalle diverse interpretazioni che man mano appaiono lungo il cammino. Quello che noi notiamo e che intepretiamo é il suo linguaggio, il suo modo di personale di aver vissuto e di rivivere quei dati eventi, e di poterli vedere in modo diverso, a volte talmente diverso da assistere ad una modifica radicale della trama. ( e allora il cattivo diventa buono, e viceversa). Dirò di più: per come lavoriamo adesso ormai noi psicoanalisti, la storia viene scritta e riscritta insieme, durante il percorso dell’analisi, in modo tale che alla fine i dati anamnestici vengono a perdere la loro importanza chiarificatrice e determinante del destino del paziente, per diventare elementi di una storia che può essere continuamente modificata.

È chiaro da ciò che dico che gli aspetti narrativi del testo di una analisi sono interessanti proprio per la loro possibilità trasformativa ed evolutiva, intrinseca allo stesso percorso analitico.

In questo mi sembra possa risiedere la possibilità di un contributo originale di un analista alla interpretazione di un film, cioé nell’essere noi addestrati a leggere, a guardare, ad ascoltare l’illusorietà cinematografica come reale e illusoria al tempo stesso, nello stesso modo come noi consideriamo reale il mondo fantastico di ogni paziente.

Per noi psicoanalisti é importante nell’ascolto del paziente tutto l’insieme di elementi che sono caratteristici del suo modo di essere, il suo stile, il suo modo di esprimersi e quello di tacere, le assenze, le mancanze, i lapsus, i sogni…..in una parola tutto quello che ci permette l’accesso al suo mondo inconscio e la comunicazione con gli aspetti non immediatamente manifesti della sua personalità. Il “come” viene raccontata la sua storia, le omissioni, le confusioni….

Analogamente potremmo dire che nel guardare un film psicoanaliticamente si può cercare di usare il “terzo occhio”, per parafrasare il “terzo orecchio” con il quale gli psicoanalisti usano ascoltare i loro pazienti. Non voglio dire che così facendo si mette il film sul divano e lo si interpreta, ma piuttosto che alcune caratteristiche specifiche della pratica di ascolto e di osservazione psicoanalitica possono venire utilizzate nel valutare quegli aspetti affettivi e cognitivi che originano dalla visione del film oltre ad esserne all’origine.

Potremmo definire questa parte “interpretazione dello spettatore”, o “analisi delle sue reazioni”, se ci limitassimo ad osservare le reazioni che la proiezione ha sul pubblico, e descrivere la relazione d’oggetto che lo spettatore ha con il film, gli aspetti proiettivi ed identificativi che intrattiene con i suoi personaggi; in realtà possiamo spingerci più oltre nell’utilizzare i nostri metodi di ascolto e di visione, e parlare del linguaggio metaforico del cinema, o del problema della “reverie” della visione cinematografica

Per effettuare tutto ciò però occorre sempre tenere in mente quanto detto sopra, cioè i rapporti intercorrenti tra il vedere e il pensare il film, e tra il vedere e l’interpretare.

Del film e di quanto lo circonda ci troviamo dunque, da psicoanalisti, a dare una lettura un po’ particolare, non specificatamente tecnica, da studiosi del cinema, cioè, ma appunto da psicoanalisti. Questa lettura probabilmente non aggiunge molto, in senso di conoscenza, alla comprensione specifica del film, inteso nei suoi aspetti più tecnici e linguistici, ma offre una possibilità di conoscenza di vari fenomeni culturali, sociali ed anche, perché no?, estetici ed etici, integrata ed allargata alle reazioni degli spettatori, alle intenzioni del regista, agli accorgimenti tecnici usati.

Pensare un film
Scrivo pensare ma potrei dire anche meditare su di un film, o forse anche usufruire a livello emotivo e a livello razionale di quegli elementi messi in circolo dalla visione del film.

Ricordiamoci che lo spettatore va al cinema di sua scelta; che anzi tale elemento di scelta può determinare il successo o meno sul mercato del film in questione e che l’industria del cinema si sostiene proprio attraverso il gradimento del pubblico.

È quindi in riferimento ad una scelta fatta anticipatamente (si va a vedere un film che si prevede essere piacevole o interessante o emozionante) che si sviluppano le reazioni successive.

Le aspettative che lo spettatore ha nei confronti di un film sono dunque elementi importanti per valutare il gradimento di un certo spettacolo.

Tradizionalmente si dice che lo spettatore al cinema può partecipare alla vicenda cinematografica attraverso i meccanismi psicologici della identificazione e della proiezione.

Sono concetti molto vasti e generali sui quali non si può che acconsentire: attraverso l’identificazione lo spettatore partecipa alle vicende di tutti i personaggi del film, mentre attraverso la proiezione tutti i personaggi rappresentano sempre lo stesso spettatore.

A guardare però più profondamente però questi meccanismi sembrano essere più complicati del previsto; che cosa succede per esempio con quei film con una storia priva di personaggi definiti, o con i documentari di paesaggi inanimati?

Forse che in quei casi manca una reazione emotiva al film? No, é ovvio.

Allora dobbiamo rivedere bene questo concetto di identificazione e capire come possiamo applicarlo alle nostre reazioni emotive di fronte al film.

L’identificazione é non solo un meccanismo psicologico, ma soprattutto il processo attraverso il quale si costituisce e si sviluppa la personalità degli esseri umani. La nostra vita si svolge attraverso continue identificazioni, che permettono lo svilupparsi del nostro essere nella società. L’identificazione consiste nel mettersi in relazione con un oggetto sulla base della percezione della sua somiglianza con l’Io. Riconoscere in un oggetto esterno all’Io aspetti di somiglianza permette di entrarvi in contatto senza bisogno di introiettarlo, facendogli così perdere il carattere di oggetto esterno all’Io e perdendo la possibilità di mantenere separato l’Io dall’oggetto.

È chiaro da quanto sto dicendo che le identificazioni sono un processo di continuo arricchimento e differenziazione dell’Io, strumento principe dello sviluppo della conoscenza.

Noi distinguiamo però tra identificazione primaria, cioè quel processo identificatorio primitivo che permette al bambino di riconoscere sé stesso come oggetto e identificazioni secondarie, caratteristiche di quando l’Io, ormai sviluppato, entra appunto come dicevo prima, a contatto con la realtà esterna.

Nella visione cinematografica, allora, come funzionano i meccanismi di identificazione? Le identificazioni nel nostro caso non sono più di tipo primario, in quanto si presuppone che lo spettatore sia sufficientemente adulto da non ricercare più una sua identità profonda sullo schermo, ma secondarie, caratteristiche cioè di un modello di conoscenza più adulto. Con chi o con che cosa si identifica dunque lo spettatore, tenuto conto che sono proprio queste sue identificazioni a permettergli di entrare in rapporto con la struttura del film, in altre parole a conoscerlo?

Sostanzialmente lo spettatore al cinema si identifica innanzitutto con l’occhio del regista, con la macchina da presa se si preferisce, in quanto soggetto e al tempo stesso artefice della visione. E già qui assistiamo ad una “confusione” se così possiamo chiamarla, tra il creatore dell’immagine filmica e l’usufruitore. In un certo senso ogni spettatore é libero grazie al particolare meccanismo della visione cinematografica di viversi come l’autore stesso di ciò che sta guardando. È peraltro noto che se si chiede a degli spettatori di riferire i particolari della stessa scena cinematografica a cui hanno assistito ben difficilmente questi racconteranno gli stessi dettagli: ciascuno ha visto quello che si é sentito di vedere, é stato artefice della propria visione in un modo che é sicuramente superiore a quanto può accadere nella visione poniamo di un quadro.

Ma quando io vedo un film so che questo film é stato fatto perché io lo vedessi (le aspettative di cui parlavamo prima). Quindi c’é un processo di identificazione anche come fruitore di ciò che viene visto. Io spettatore sono l’occhio che guardo (e quindi il regista) ma anche l’occhio per il quale il tutto viene girato (e quindi lo spettatore). Ciò che vedo se da un lato viene organizzato proprio per la mia visione, dall’altro però si ferma dentro di me ed é al mio interno che viene organizzato. In un certo senso la soddisfazione che si prova dalla visione di un film può somigliare all’autoerotismo, proprio per questo complesso sistema delle identificazione crociate; se ne differenzia però per quello che é l’aspettativa: io mi aspetto qualcosa da questo oggetto esterno, in quanto so che é esterno a me.

Anche nella visione di un quadro esiste questo aspetto di identificazione con l’autore del quadro, oltre che con il soggetto del quadro stesso; per le particolari caratteristiche della percezione cinematografica, però questa doppia identificazione viene nel caso della visione cinematografica, straordinariamente ampliata.

Anche alle persone meno esperte di problemi di tecnica cinematografica balza all’occhio che questi elementi sono molto rilevanti per scegliere un tipo di inquadratura piuttosto che un’altra, un primo piano piuttosto che una carrellata, ecc. ecc. In un caso verrà privilegiata e sottolineata di più l’identificazione con quel personaggio o con quell’oggetto, in un altro verrà distolta l’attenzione dal particolare per permettere una migliore comprensione emotiva della scena complessiva.

Cercherò di spiegarmi meglio con alcuni esempi, scelti tra film notissimi ai più.

Nella “Corazzata Potemkin” (1925) la scelta della carrozzina in primo piano nella famosa scena della fuga sotto l’attacco dell’esercito zarista permette un distacco emotivo da una scena di massa troppo violenta, ma contemporaneamente funge da amplificatore dell’emotività concentrando la nostra visione su di un dettaglio più facilmente introiettabile. Per farci sentire di più l’elemento di panico collettivo il regista sceglie di distaccarsi dalla scena di massa, per sottolineare al suo posto un particolare irrilevante; per altro é lo stesso regista, Ejzenstejn, a dire che “il primo piano ha la funzione non tanto di mostrare o di presentare, quanto di significare, di dare senso, di determinare.”

Un altro regista, Orson Wells, invece sceglie, in una scena di guerra del film “Falstaff” (1966) un lungo campo totale tra le gambe dei cavalli ed i corpi dei soldati che cadono, ripetendo la rappresentazione di una delle famose battaglie di Paolo Uccello. In questo caso l’identificazione con la scena di massa conduce ad un senso di confusione e spavento, ad un sentimento indifferenziato di paura e di forte impressione della violenza della battaglia in corso. La mancanza di primi piani qui, favorisce un’identificazione non con un dettaglio che permetterebbe il recupero della propria soggettività, ma al contrario con una situazione confusiva, il cui elemento di paura consiste proprio nello smarrimento del sè nella confusione della scena. Il sentimento dell’assurdo, di una violenza al tempo stesso misurata e fuori dal controllo permette di cogliere gli aspetti non naturali della battaglia, di quelle morti improvvise ma prevedibili.

Come vedete sto già anticipando gli argomenti successivi, cioè i film di guerra, ma penso che possa essere utile questa anticipazione ai fine di capire in pratica i rapporti tra il linguaggio di un film ed i meccanismi di identificazione che intervengono nello spettatore.

Questi meccanismi di identificazione sono poi quelli che permettono al regista di passare il suo messaggio con il suo linguaggio in modo tale che possa essere condiviso dallo spettatore.

Da tutto questo possiamo capire il grande potere di persuasione dell’immagine filmica: e a partire da queste considerazioni possiamo valutare anche gli effetti sociali e politici delle immagine proiettate sul pubblico.

Ho detto prima che lo spettatore partecipa alla vicenda cinematografica attraverso i meccanismi psicologici della identificazione e della proiezione. Come intervengono i processi proiettivi, e qual’é la differenza rispetto ai processi di identificazione?

So di inoltrarmi in un terreno piuttosto complesso affrontando questo argomento, anche perché soprattutto nel linguaggio corrente i due termini vengono usati indistintamente.

La proiezione viene definita, in termini psicoanalitici come l’operazione di espulsione da sè e di collocamento su di un’altra persona di vissuti ed emozioni, che non possono venire riconosciute come proprie. È un meccanismo di difesa molto antico, presente non solo in situazioni patologiche, come quelle paranoidee, dove si presenta con particolari caratteristiche, ma soprattutto come elemento fondamentale della nostra vita quotidiana; per fare un esempio, la terapia analitica stessa non sarebbe possibile se non esistesse il fenomeno della proiezione, base dei meccanismi di transfert e di controtransfert.

Perché é importante il fenomeno della proiezione nell’analisi delle reazioni degli spettatori alla proiezione cinematografica?

In un certo senso é proprio e soprattutto grazie al fenomeno della proiezione che risulta significativo porci la domanda del nostro libro: “Come vengono influenzati dalle immagini di violenza gli spettatori?”

I meccanismi proiettivi, come ho detto prima, implicano che la parte di sé che viene vista nell’altro, persona od oggetto che sia, non venga riconosciuta come propria. Questa é la differenza fondamentale rispetto alla identificazione, attraverso la quale l’altro viene riconosciuto in quanto altro da sé proprio grazie alla sua somiglianza con noi.

Prima parlavo dell’identificazione come base della conoscenza umana; e ricordavo come i due termini identificazione e proiezione vengano usati indifferentemente e confusi tra loro. In realtà l’aspetto peculiare della proiezione consiste nella espulsione da sé di parti inaccettabili, a differenza dell’identificazione, ed é resa possibile grazie alla possibilità di scissione al nostro interno tra parti accettabili e non.

Vorrei aprire una piccola parentesi sul significato della parola proiezione in altri ambiti che non quello analitico, e soprattutto rispetto a quello della psicologia della percezione, tanto citata all’inizio.

Nella fisiologia del processo della visione la proiezione é quel meccanismo per il quale mentre il raggio di luce e l’immagine si fissano sulla retina, in realtà noi percepiamo l’immagine ad una certa distanza dagli occhi, cioè davanti a noi. La proiezione é a livello centrale un processo di interpretazione dei dati sensoriali periferici.

Ricordo questo particolare perché esso ha dei rapporti con quella che é l’interpretazione della proiezione a livello psicoanalitico, concetto che noi utilizziamo per illustrare determinate reazioni degli spettatori a certe situazioni filmiche, che non sarebbero altrimenti comprensibili se non facessimo ricorso a tali meccanismi.

Non dimentichiamoci che il cinema tra tutte le arti visive é quella che presenta maggiormente aspetti tecnici, é quella cioè in cui la manipolazione della realtà percepita, come dicevo nel paragrafo dedicato alla visione, é più importante per raggiungere un certo prodotto finale.

Se con l’identificazione abbiamo un aumento della nostra conoscenza, attraverso la proiezione ci troviamo a fare i conti con situazioni intollerabili se attribuite a noi come soggetti, ma perfettamente conoscibili se espulse dal nostro mondo interno e proiettate all’esterno. La proiezione é un processo difensivo (non necessariamente patologico, come dicevo prima) “che aiuta l’Io a superare l’angoscia liberandolo da ciò che é pericoloso e malvagio”, come dice Melanie Klein.

Il processo della visione cinematografica é proiettivo per la sua stessa struttura (il film viene girato con una macchina da presa e proiettato su di uno schermo affinché possa essere visto dallo spettatore). Ciò che il regista vede e ciò che costruisce della realtà viene catturato dalla cinepresa per essere poi nuovamente esposto sullo schermo e restituito ad uno sguardo che osserva. A nostra volta, come spettatori ricostruiamo al nostro interno l’immagine proiettata sullo schermo attribuendole immagini e significati tali da essere comprensibili per noi. Quando venne proiettato il film dei fratelli Lumière “L’arrivée d’un train a la Gare de la Ciotat” di fronte alla locomotiva che entrava in stazione in primo piano gli spettatori spaventati abbandonarono la sala per paura di essere travolti. In quel caso e a quei tempi (1895) per uno spettatore comune non c’era soluzione di continuità tra lo schermo e la propria mente. È significativa allora la relazione tra lo spazio dell’immagine e lo spazio dello spettatore. Il lavoro del regista consiste in un certo senso nel tenere conto che lo spettatore non é sullo stesso piano di ciò che osserva, che lo spazio del film proiettato, la superficie dell’immagine, i colori, la materia stessa dell’immagine ovvero tutti gli elementi che costituiscono l’immagine sono proiettati lontano da lui. L’elenco degli elementi costitutivi dell’immagine é importante per capire quali sono gli elementi coinvolti nel rapporto con lo spettatore e per valutare come trasmettere una storia, un’immagine, un messaggio, che tengano conto delle caratteristiche di tale situazione.

Lo spettatore però non proietta solo il suo sguardo sullo schermo, che d’altra parte non si limita a rappresentare solo un’immagine; psicoanaliticamente parlando, dando cioè al termine proiezione un significato non solo fisiologico, sullo schermo vengono anche proiettate quelle parti della realtà interna che non vengono accettate e che per questo motivo devono essere espulse. Ma se vogliamo entrare nel vivo dell’argomento, quali sono le parti che devono essere espulse, perché incompatibili con la nostra valutazione della realtà? Secondo gli psicoanalisti agli esseri umani sembrano particolarmente intollerabili soprattutto quegli aspetti che hanno a che fare con le angosce di morte, propria o altrui; e quindi gli impulsi etero ed auto aggressivi .

Sarebbe giusto mantenere anche qui il doppio registro, e cioè ricordare che l’aspetto proiettivo vale anche per chi gira il film, non solo per lo spettatore, e non solo, anche qui, nel senso fisiologico della visione. Spesso certe immagini corrispondono a significati che vengono considerati inaccettabili non solo per chi le guarda, ma anche per chi le gira, e allora viene proiettata sullo spettatore la responsabilità di dare un significato emotivo pieno all’immagine proiettata, che viene lasciata volutamente nell’ambiguità. D’altra parte é solo in questo modo che riescono a passare certi contenuti altrimenti troppo crudi e pesanti per qualunque spettatore.

Ricordo il doppio aspetto della proiezione, sia quello fisiologico che quello psicologico e il fatto che esso riguarda sia lo spettatore che il regista del film, perché questo viene considerato una delle ragioni per elaborare un linguaggio artistico: per potere comunicare emozioni non altrimenti comunicabili attraverso i normali canali della comunicazione. E queste emozioni, proiettate sullo spettatore, lo raggiungono e lo coinvolgono ad un livello molto superiore a quanto non avverrebbe con un procedimento espressivo differente.

I film di guerra
In una rassegna di film dedicata al fenomeno della violenza non poteva mancare un film di guerra, o meglio sulla guerra. Di tutte le esperienze violente e traumatiche che affliggono l’umanità sicuramente le guerre rappresentano l’espressione più assoluta del rischio dell’annullamento totale che ne può derivare. Anche per questa ragione esse sono sempre state abbondantemente illustrate e rappresentate, dalle iscrizioni rupestri alla colonna di Traiano fino ai reportage in diretta da Baghdad della CNN. I film di guerra sono una colonna portante della storia del cinema, dai film patriottici a quelli antimilitaristi, da quelli di propaganda di regime a quelli sulle lotte partigiane.

Per chi ritiene essere il cinema soprattutto movimento, la guerra é la situazione filmica per eccellenza. Possiamo anche dire che le guerre hanno ispirato movimenti artistici e rivoluzioni stilistiche fondamentali. Basti pensare al neorealismo italiano, o ai più recenti film americani sulla Guerra del Vietnam girati dopo anni di colpevole rimozione nazionale

Cercheremo di illustrare scene di alcuni di questi film, cercando di cogliere i meccanismi psicologici e le loro modalità di espressione attraverso determinate tecniche cinematografiche.

Ritorniamo alla “Corazzata Potemkin”, già citata prima: Ejzenstejn, nel giustificare l’uso sistematico dei primi piani, nella successione per esempio dei volti afflitti intorno ad un cadavere dice che: “In una rapida apparizione di singoli primi piani ben costruita… ogni volto appare solo per un istante, ma porta in sé….il segno dell’appartenenza sociale, delle abitudini di vita, ecc. ecc…..questo genera il sentimento dell’universalità del dolore per quella persona, dolore che unisce vecchi e bambini, intellettuali e lavoratori, marinai e donne.”

In questo modo allora il regista permette l’identificazione dello spettatore con ogni singola persona in primo piano, identificazione che però, nella sua molteplicità permette di partecipare al sentimento generale di cordoglio e quindi di ottenere nello spettatore la comprensione dell’aspetto di collettività dell’episodio rivoluzionario che vuole raccontare, in altre parole della sua universalità.

Il sentimento di dolore per i lutti che la rivoluzione comporta viene proiettato su soggetti diversi da noi, viene colto cioè dallo spettatore e dal regista, ma attraverso la rapida successione dei personaggi viene diluito nel cordoglio universale e in questo modo può venire accettato come parte del destino dell’uomo.

Tra i film di guerra del passato prossimo vorrei soffermarmi su quelli relativi alla guerra del Vietnam che più hanno a che fare con una situazione di imbarazzo e disagio collettiva, e per i quali é stato più faticoso e doloroso l’aspetto narrativo.

La guerra del Vietnam come guerra assurda sembra essere stato il motivo dominante di tali film. Forse per la prima volta é stato possibile affrontare l’aspetto della violenza e della distruzione bellica al di là della retorica patriottica che tanto aveva influenzato stilisticamente negli anni ‘50 i film di guerra americani, nell’ambito della Guerra Fredda.

Francis Ford Coppola nel film “Apocalypse now” (1979) descrive un viaggio nell’assurdo orrore di una guerra; il film é molto noto, noto é il suo rifarsi esplicitamente a “Cuore di Tenebra” di Conrad, nota é la sua denuncia del potere assoluto dell’uccidere e dello stravolgimento di ogni regola civile man mano che ci si inoltra nella giungla, metafora fortissima dell’inestricabile caoticità e follia a cui era giunta la guerra nel Vietnam. Di questo film voglio ricordare però, per una volta, un elemento non visivo, e cioè il contributo determinante dell’uso del sonoro all’evocazione dell’irrealtà del mondo rappresentato. Il commento musicale del film, i rumori, la musica, i dialoghi sono ad un volume fortissimo, e vengono potenziati e riverberati dalla somma dei vari elementi concomitanti. Anche nella giungla i versi degli animali diventano un inquietante sottofondo, che fa da commento all’avanzare della barca nel fiume.

Secondo un grande regista e teorico del cinema, Pudovkin, per il quale il montaggio é la base estetica del film, il cardine intorno a cui gira il suo significato artistico, il sonoro é un mezzo espressivo del film e non una semplice riproduzione dei suoni, o un commento musicale. La musica deve esprimere qualcosa di diverso dall’immagine, e deve pertanto essere il più possibile basata sulla ricerca dell’asincronismo.

Nel linguaggio fortemente allusivo e metaforico di questo film il bombardamento di tutta la colonna sonora nella sua amplificazione in dolby system (in una delle sue prime applicazioni) sembra colpire direttamente la nostra emotività, scavalcando completamente ogni possibile lettura razionale e richiamando i massicci bombardamenti della guerra, permette allo spettatore di calarsi nella stessa realtà emotiva di alienazione e di sconcerto, con perdita di ogni lucidità razionale, dei militari impegnati in azioni belliche. A riguardo basta ricordare la bellissima scena dell’arrivo degli elicotteri sulla spiaggia, con la Cavalcata delle Valchirie trasmessa a tutto volume dagli altoparlanti per conto del colonnello pazzo. È un commento musicale quello di Wagner inserito nel montaggio? È una fedele riproduzione della realtà? Oppure é una scelta stilistica di apparente realismo, in realtà di stralunato teatro dell’assurdo?

In questo caso le nostre identificazioni sono immediate e non abbiamo scampo in proiezioni difensive: il sonoro viene a giocare un ruolo importante nell’inchiodare lo spettatore all’immagine realistica ma totalmente assurda che viene proiettata, e a impedire ad un livello più generale la fuga dalle responsabilità di una guerra assurda, da tutti non voluta e da tutti negata, ma ugualmente combattuta.

Nella Rassegna dedicata ai film sulla violenza il film scelto per rappresentare la violenza della guerra é stato un po’ sui generis per tematica e sviluppo. Non é infatti un film di guerra, ma é un film che affronta le conseguenze di quella immane carneficina che fu la Prima Guerra Mondiale, insistendo con pignoleria e con garbo nel respingere la tendenza alla rimozione collettiva del dopo guerra. Si tratta del film di Bertrand Tavernier “ La vita e nient’altro” (1989).

Questo film, unico della rassegna, non rappresenta una situazione violenta nel suo svolgimento, ma ne descrive gli effetti, indugiando a identificare, attraverso l’ossessivo ricordare i numeri delle vittime da parte del protagonista, le ferite lasciate dalla guerra. Il film è ambientato nella piana di Verdun nel 1920, tra i parenti delle vittime impegnati nella pietosa ricerca di un oggetto utile all’identificazione del loro caro disperso e affronta il colpevole silenzio delle autorità francesi sui trecentocinquantamila dispersi della Grande Guerra, e con toni dolenti trasmette un messaggio biblico: “Ricorda e ancora ricorda.”, ritenendo che solo così sia possibile superare lo schock delle perdite e delle ferite e solo così sia possibile affrontare la vera ricostruzione.

Il titolo del film é la parafrasi di un verso di Paul Eluard “L’amore e nient’altro”.

Ricordavamo prima come le guerre abbiano ispirato movimenti artistici e grosse rivoluzioni stilistiche cinematografiche, e non possiamo non ricordare come la storia del movimento psicoanalitico sia strettamente intrecciata con le due guerre mondiali.

La Grande Guerra colse Freud di sorpresa, come del resto tutti gli intellettuali del suo tempo. Le guerre precedenti risalivano alla generazione precedente ed erano state guerre brevi, con armi molto meno letali e soprattutto con minori danni diretti alla popolazione civile. La prima Guerra Mondiale colse tutti di sorpresa per l’enorme carneficina di massa effetto della combinazione dell’impiego di nuove tecnologie militari molto più letali che in passato e di strategie e tattiche militari basate su scontri frontali di grandi masse di uomini. I morti direttamente in guerra, i caduti cioè, della Prima Guerra Mondiale furono molto superiori a quelli della Seconda, sia in assoluto sia in relazione al numero dei combattenti. Non c’era famiglia che non avesse perso un proprio caro al fronte. Ma forse ancora più drammatico fu lo straziante ritorno a casa dei feriti, dei mutilati, degli smemorati …in una sola parola dei traumatizzati, fisici e psichici, vera testimonianza di cosa era veramente stata la guerra al di là della retorica patriottica e militaristica degli anni precedenti. Sistematicamente i reportage giornalistici dal fronte, i servizi fotografici escludevano quelle scene così normali e frequenti, dei corpi maciullati dalle mine, gli sventramenti , le mutilazioni, i corpi decomposti e irriconoscibili. Ancora oggi nelle campagne d’Europa vengono rinvenuti residui bellici della I° Guerra Mondiale dalla micidiale potenza distruttiva.

Dice Freud che c’è in noi l’inequivocabile tendenza a scartare l’idea della morte e a eliminarla dalla vita. Quando la morte colpisce le persone a noi care crolliamo completamente e per un po’ ci rifiutiamo di sostituire nel nostro cuore la persona perduta. Ma é di fronte alla nostra propria morte che ci comportiamo come se non esistesse: per il nostro inconscio la morte non esiste, e l’angoscia di morte che spesso ci domina proviene in genere dal senso di colpa. In che modo allora la guerra modifica le nostre più profonde convinzioni? Perché mette in luce questa nostra duplicità di fronte alla morte che da un lato la rinnega, e dall’altro la riconosce come annullamento della vita. “Da un lato ci comportiamo come gli eroi incapaci di credere alla propria morte, dall’altro come gli uomini primitivi pronti a gioire della morte del nemico.“ dice Freud. (1915)

Questa ambivalenza é appunto rappresentata in modo superbo nel film.

Cominciamo dall’incipit del film, bellissimo, con quel lunghissimo carrello sulla spiaggia che si spinge fino all’orizzonte, sulle due corse parallele, quella della macchina della bella Irene (Irene vuol dire pace in greco) e quella della cavalcata in riva al mare della suora e del soldato privo di una gamba. Questo inizio così bizzarro e folgorante può essere una possibile chiave di lettura del film. È una lettura psicoanalitica ovviamente, che parla di un percorso in libertà parallelo di personaggi che sembrerebbero non doversi incontrare mai, tanto appare assurda e incongrua la loro unione. Tali sono gli accoppiamenti per tutta la durata del film, Irene e il comandante, così diversi per età ambiente e educazione; ancora Irene e la piccola, unite dalla necessità di identificare lo stesso uomo. Unioni azzardate ma vitali, protese verso il futuro come quella cavalcata sulla spiaggia. I personaggi uniti casualmente dalla violenza distruttiva della guerra sembrano ricercare l’uno nell’altro quella vitalità e quegli affetti che la guerra gli ha strappato. È in questi spazi grotteschi, in pianure seminate da bombe e da cadaveri da disseppellire, in una luce rarefatta tardo autunnale che si svolge la ricerca della verità, quella interiore con il coraggio di rinunciare a un lutto ormai inutile e di abbracciare le nuove passioni della vita , e quella esterna con il bisogno di dichiarare il numero reale dei morti e dei dispersi anziché nascondersi nella retorica ufficiale del milite ignoto.

È in questi anni che Freud postula l’esistenza di una pulsione di morte che agisce silenziosamente accanto alle pulsioni libidiche. Nel film se ne colgono le tracce: si afferra l’angosciosa lotta contro la perdita definitiva , l’allontanamento delle finte speranze; il desiderio di una catarsi e il bisogno della verità . “Non dimenticare, non disperdere, non negare “ sembra ripetere per tutto il film il capitano, oscuramente consapevole della forza delle pulsioni distruttive e del loro permanere al di là e oltre la distruzione bellica.

Si può concludere con le parole di Clausewitz, con la sua descrizione della guerra come una “notevole trinità”, composta da 1) violenza primordiale, odio e inimicizia, considerate come una cieca forza naturale, 2) gioco della fortuna e del caso, all’interno del quale lo spirito creativo é libero di scorazzare, 3) strumento subordinato del gioco della politica, che lo rende soggetto solo alla ragione. Il primo di questi aspetti riguarda soprattutto il popolo, il secondo il comandante e le sue armate, il terzo il governo….(cap.I°)

Questi tre aspetti sono come tre diversi codici di una legge, profondamente radicati nel loro soggetto ma ancora variabili nelle relazioni tra di loro. Una teoria che ignora ciascuno di questi o cerca di fissare arbitrarie relazioni tra loro entrerebbe in conflitto con la realtà a un tale livello che sarebbe completamente inutile non fosse che per questa ragione. (Karl von Clausewitz (1780-1831) “Sulla Guerra”).

Anche nell’ analizzare il linguaggio dei film di guerra, sia delle reazioni degli spettatori alle varie immagini che li compongono, che le motivazioni delle singole scelte stilistiche, noi cerchiamo di tenere conto dei vari elementi che ne sono all’origine e del loro inestricabile rapporto. Anche i film di guerra, allo stesso modo della guerra che rappresentano, comportano a nostro avviso degli elementi che possono venire sintetizzati efficacemente nella trinità di Clausewitz. E questo aspetto fondamentale ci permette di fare collegamenti tra l’evento in sè, la guerra, e la sua rappresentazione filmica. Anche i film di guerra infatti possono venire schematizzati con questa triade, per quel che riguarda l’oorganizzazione del loro contenuto. Essi infatti presentano sempre:

1) un contenuto di violenza primordiale .
2) la rappresentazione delle capacità umane di inventiva e di reazione creativa al destino
3) la descrizione delle realtà storiche e delle scelte politiche alla base dell’evento bellico.

Lo spettatore si trova coinvolto in tutti e tre i movimenti ed é proprio grazie alle sue capacità di sintesi che riesce ad entrare in relazione con la narrazione complessiva dell’evento e a ricostruire al suo interno il percorso narrativo profondo anche degli aspetti più difficilmente accettabili di tali vicende.

Spesso ci si “perde” nella visione di un film, nel senso che ci si immerge profondamente nella visione fino a dimenticare la realtà esterna che diventa meno reale di quella proiettata. Questa situazione ben nota agli psicoanalisti viene chiamata di reverie (fantasticheria), e a volte, in soggetti fragili e già predisposti favorisce una immedesimazione molto violenta, che porta ad una fuga dalla realtà esterna. Ma la reverie é un processo fondamentale col quale, grazie ad un relativo abbassamento della vigilanza assistiamo all’emergenza del cosiddetto processo primario, cioè, diciamo pure, del linguaggio del mondo interiore. Ed é grazie a questo evento che possiamo entrare più facilmente in contatto con i contenuti più profondi del film e compiere quell’operazione di sintesi tra i vari elementi, senza la cui integrazione non esisterebbe la possibilità della visione cinematografica.


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