La novena è il primo episodio di una trilogia che il regista Bernard Émond ha realizzato sul senso della vita visto attraverso tre religioni (cristianesimo, islam e ebraismo) e tre dogmi (fede, speranza, carità). La Neuvaine (La Novena) che è il primo, parla attraverso una prospettiva in parte laica ed in parte religiosa, della fede o della fiducia, prima persa e poi e ritrovata, della protagonista. È un film di poche parole, e di sguardi molto intensi. A mio avviso due sono gli elementi significativi e rivelatori del film, esempi perspicui, trama e ordito del film e del mio commento:
– Il dialogo fuori campo, che accompagna tutto il film e la cui collocazione comprenderemo solo alla fine, essendoci lasciati clamorosamente trascinare fuori strada.
– Il viso straordinariamente espressivo di Jeanne, e soprattutto il suo sguardo, all’inizio e durante tutto il film. Questo sguardo ti trapassa, e trapassa lo schermo. Guarda al di là di te, al di là del fiume, al di là della vita.
Il dialogo fuori campo, dicevo, che accompagna tutto il film e la cui collocazione comprenderemo solo alla fine, essendoci lasciati clamorosamente trascinare fuori strada. Sembra infatti il dialogo tra uno psicoanalista, o comunque un terapeuta, e la sua paziente, e solo alla fine, nelle ultime scene, comprendiamo che si tratta invece di un intimo colloquio, finale, catartico, tra Jeanne e il padre del santuario destinato ad accogliere le richieste di benedizioni. A lui Jeanne arriva dopo quel viaggio spirituale e di recupero della fede o della fiducia, che è appunto la trama e la morale del film. Quindi prima annotazione: il film è il racconto di un viaggio interiore, che Jeanne percorre, non da sola, ma con l’aiuto della fede ingenua e trascinatrice di François. E che costituisce un viaggio terapeutico verso il recupero della fiducia in se stessa e negli altri, e nella vita. (vedi l’episodio di come salva, con la respirazione bocca a bocca, uno sconosciuto colto da attacco cardiaco sulle scale del santuario). Jeanne sembra essere, all’inizio del film ormai al di là di questa vita, pronta a lasciarla. Nel primo dialogo infatti con il prete /terapeuta dice: “Quello che non posso sopportare è il pensiero che certe sofferenze sono uno spreco. Sarebbe meglio essere morte, o non essere mai nate.” È una donna che ha dedicato tutta se stessa a cercare di tenere in vita prima suo figlio, affetto da una grave malattia cronico generativa e comunque destinato a morire. Vedere morire tra le proprie braccia un figlio piccolo, sapendo di non potere fare molto per salvarlo, nonostante le proprie competenze mediche (Jeanne è un medico del pronto soccorso), è atroce. Eppure non è questo a spezzare il suo desiderio di vivere, ma il secondo episodio, di cui vediamo dei flash back per tutto il film e la cui scena completa si definisce solo verso la fine. Anche qui possiamo dire, da psicoanalisti, che l’atrocità del ricordo è tale da impedire la sua rimembranza, salvo alla fine, quando il trauma e la colpa sono stati infine rielaborati, ed allora possiamo vedere tutta la vicenda, intera, del marito –padre, che uccide prima la moglie ed il figlio, e poi se stesso. Anche se, ed è una finezza stilistica, la morte della ragazza e del bambino le vediamo, ancora una volta, attraverso gli occhi sbarrati di Jeanne. Alla morte del figlio Jeanne si butta nel lavoro, cercando, inconsciamente, di salvare quelle vite che non era riuscita a fare con lui. Incontra una ragazza maltrattata, e si spinge più in là, impegnandosi nuovamente a livello personale e affettivo. Cerca non solo di aiutarla, ma anche di salvarla, dalla violenza del marito, lei e il suo bambino. Anche qui le va male, e le va male perché ha peccato di ingenuità e anche, ahimè, di malpractice, come cerca di metterla in guardia il marito. Infatti, sembra che sia proprio l’interesse personale per la ragazza che alla fine metta definitivamente a repentaglio la vita sua e del bambino, scatenando un meccanismo di follia che forse, se si fosse comportata diversamente, non sarebbe partito.
È qui che voglio fare la seconda annotazione, e riguarda lo sguardo di Jeanne. Questo sguardo ti trapassa, e trapassa lo schermo, dicevo. Guarda al di là di te, al di là del fiume, al di là della vita. Jeanne ha, letteralmente, perso la fiducia/la fede nella vita e nelle sue capacità/possibilità di intervento su di essa. È uno sguardo vuoto, ma a tutto campo. È uno sguardo che vedi nei pazienti disperati, che a loro volta hanno esaurito ogni fiducia nelle loro possibilità di azione, e nelle possibilità di essere aiutati. Non hanno più, come dice Emond, la fede. Ricordiamo un altro pezzo del dialogo con il prete terapeuta: “Il male per il male, esiste?” È una domanda importante, che ha a che fare con la fiducia che si ripone negli altri ed in se stessi. “Si possono aiutare le persone? si può fare del bene? ma si può fare del bene se esiste il male?”
Lasciatemi adesso discettare un po’ sulla fede, da un punto di vista non religioso, come in fondo fa anche Emond, e perdonatemi la mia pochezza filosofica, perché certo l’argomento meriterebbe ben altri pensatori e profondità. Stranamente, sul concetto di fede o credenza, nella cultura psicoanalitica si è detto e scritto poco. Freud si era sempre definito laico e non credente, nonostante non avesse mai rinnegato la sua appartenenza all’ebraismo. Per Freud l’idea religiosa era definita come un’illusione, che può avere una funzione positiva per alcuni individui, e anche per l’umanità, ma non può reggere ad un esame critico della realtà. Nel 1927, in L’avvenire di un’illusione assume una posizione di chiaro stampo illuministico, e afferma che la religione è un’illusione, e chi si affida alla ragione se ne deve sbarazzare: “Se prendiamo in considerazione la genesi psichica delle rappresentazioni religiose, questi dogmi non sono esiti dell’esperienza o risultati conclusivi di un’attività di pensiero, ma sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti dell’umanità. …Noi diciamo dunque che una credenza è un’illusione qualora nella sua motivazione prevalga l’appagamento del desiderio e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà .” È una posizione un po’ rigida, soprattutto adesso, ai nostri tempi, perché in fondo, proprio anche grazie alle scoperte di Freud, abbiamo perso un po’ della fiducia che lui aveva nelle possibilità limpide e assolute della ragione.
Eppure, anche Freud, come dice Emond di se stesso in una bellissima intervista, ha sempre posato il suo sguardo di ateo sul fenomeno della credenza, e in definitiva sulla Fede. Emond si interessa (dice in un’intervista) in particolare alla ricerca del sacro in un società che l’ha evacuato con disprezzo a profitto del consumismo: «Mais de plus en plus, je suis préoccupé par la nécessité de la transcendance dans un monde sans Dieu. Je ne peux pas admettre que le samedi au centre d’achats soit l’unique horizon de l’expérience humaine.»
Ritorniamo al film. Le prime immagini dello sguardo di Jeanne sullo schermo sono di una profonda sofferenza interiore. È uno sguardo che trapassa lo spettatore, uno sguardo che si rivolge direttamente allo spettatore e gli parla dallo schermo, quasi invitandolo a prendere parte alla vicenda. Non guarda però lo spettatore Jeanne, ma guarda il vuoto, l’al di là del fiume, l’oltre il visibile. Eppure quello sguardo coinvolge più che se guardasse direttamente nella macchina da presa, perché è uno sguardo che sfugge l’altro, e lo oltrepassa, calato nel dolore, nell’angoscia e nella colpa. È uno sguardo che uno psicoanalista conosce bene, è lo sguardo della disperazione, mai diretto, anche quando sembra guardare davanti. È un film questo a mio avviso molto sensoriale, con pochissime parole, ma molte sensazioni. Se avesse potuto, Emond avrebbe probabilmente anche aggiunto gli odori. L’odore della paura di Jeanne, per primo, ma anche della ragazza e del marito assassino, l’odore delle medicine della nonna, l’odore del fiume e dei campi, l’odore dell’incenso nel santuario. Questo è lo spazio sensoriale ed emotivo dove si svolge la vicenda della perdita della fede e della credenza, e del suo successivo recupero attraverso la persona di François
Quella certa attrazione per la morte, ho intitolato questo mio intervento, alludendo a quella sorta di calamita che attira Jeanne lentamente verso il suicidio, e che noi vediamo svilupparsi nella prima parte del film. Jeanne che rimane muta, non risponde, rimane chiusa in quella stanza, piccola come una cella, grigia, con tanti cassettini, che guarda dalla finestra, ma guarda il vuoto, e guarda verso quella che le sembra la soluzione delle sue sofferenze, cioè la morte. È qui che incontra François, quando ormai si è preparata al suicidio ed è ferma, disperata, di fronte al fiume. François appare come dal nulla, richiamato a sua volta da qualcosa di misterioso verso quel posto solitario. Si siede accanto a Jeanne e non le chiede nulla. Rimane accanto a lei a lungo, senza che lei quasi se ne accorga. Ma non è così. Lei appare, all’inizio, infastidita dalla sua presenza, che si frappone tra lei ed il suo progetto suicidario. Poi François compie un gesto, un gesto da nulla: quando lei rabbrividisce dal freddo, si toglie il suo giaccone e glielo pone sulle spalle. Ecco, questo è la svolta del film. François non le chiede nulla, non vuole nulla, ma spontaneamente, la protegge dal freddo, e successivamente dalla fame. Come è terapeutico questo atteggiamento! Quante volte ci è capitato di avere davanti a noi pazienti assolutamente disperati, attratti dalla morte più di ogni altra cosa al mondo, a cui stiamo vicini in silenzio, intimiditi dalle loro sofferenze. Poi alla fine, un gesto, una parola, e li vediamo ritornare ad avere fiducia nella possibilità di essere capiti. È il bene per il bene, che si oppone al male per il male.
Anche François ha problemi con la fede, ma opposti rispetto a quelli di Jeanne. Lui, di fronte all’avvicinarsi della morte della nonna tanto amata, che lo aveva accolto quando i genitori erano morti da piccolo, non accetta l’inesorabile compiersi della fine, e si reca al santuario di Sant’Anna, per compiere una novena. Le novene sono celebrazioni popolari di preghiera e d’intercessione che nell’arco dei secoli hanno affiancato le “liturgie ufficiali”. È un’antica tradizione della Chiesa, che si ispira alla preghiera fatta con un cuore solo dagli apostoli, riuniti attorno a Maria nel Cenacolo, durante i nove giorni che separano l’Ascensione del Signore dalla discesa dello Spirito. Le novene sono annoverate nel grande elenco dei “pii esercizi”, e pur non essendo “preghiera ufficiale” della Chiesa, costituiscono un momento molto significativo nella vita delle comunità cristiane. Quindi qui abbiamo un personalità completamente opposta a quella di Jeanne. François è un semplice, che crede, al di là della ragione. Jeanne è invece una persona logica, razionale, la cui fiducia negli uomini è stata sgretolata dagli eventi. L’incontro tra i due è fertile. François salva Jeanne dal suicidio, e Jeanne salva François dalla perdita della fede, che avrebbe voluto dire la perdita del nucleo centrale della sua vita. Lei si fida di lui, e segue i suoi consigli, e passo dopo passo ritorna a vivere, va a vedere il volo delle oche selvatiche, va al santuario, ed infine anche lei va a chiedere la benedizione del padre per le povere vittime. Ed è Jeanne che accudisce la nonna negli ultimi momenti della sua vita, la lava, la nutre, le chiude gli occhi. Ha pietà di lei, e questa pietas circolare, attraversa il film come lo attraversa il San Lorenzo, il fiume, o il volo delle oche selvatiche, e riconcilia entrambi i protagonisti, e lo spettatore con loro, con i profondi significati della vita, con la necessità di accettare il mistero della morte, e la necessità di ricominciare a fidarci, a credere negli altri ed in noi stessi, se non in Dio.
Per finire, cosa c’entra tutto questo con la psicoanalisi? Ammesso che debba c’entrarci in qualche modo? Ritorno ai due esempi perspicui dell’inizio, lo sguardo profondo di Jeanne, ed il dialogo con il prete che accompagnano entrambi tutto il film. Del secondo ho già detto, potrebbe essere un dialogo con un terapeuta, ed infatti lo è, è una terapia dell’anima, un’esperienza catartica, di purificazione che Jeanne compie, e che la riavvicina alla semplicità dell’esistenza, da cui si era allontanata per avere peccato di ΰbris, di troppo orgoglio, avendo voluto salvare prima il suo bambino, comunque condannato e poi la donna maltrattata, senza pensare che sarebbe stato meglio affidare tutto ad un intervento meno personalizzato. Dello sguardo anche ho già detto: è lo sguardo della disperazione, che bisogna sapere vedere, anche se non ci guarda, anche se ci oltrepassa. È uno sguardo che ti chiama in causa, lo sguardo di chi ha bisogno ma pensa di essere ormai al di là di ogni possibile aiuto. Perché guardarlo? Perché raccoglierlo? Perché fa parte della nostra umanità occuparci degli altri, cercare di stare insieme, cercare di capire. Se esiste il male per il male, esiste anche il bene per il bene. Si tratta di considerazioni, a mio avviso che non riguardano solo l’esperienza religiosa, ma invece hanno profondamente a che fare con quella umana. Ricordiamo che credere in qualcosa non è la stessa cosa che conoscerla, e che credenza e conoscenza sono concetti diversi. Jeanne, attraverso la fede che il ragazzo ripone in lei, recupera la sua conoscenza, e può intervenire con la nonna, perché sa/conosce che è ormai giunta alla fine della vita. Una credenza richiede una conferma sensoriale, un esame di realtà, per diventare conoscenza, ma ugualmente anche quello che si percepisce richiede fiducia, per diventare conoscenza.
Credere è importante, anzi fondamentale, nella vita psichica di un individuo. La realtà psichica stessa, cui noi tanto facciamo riferimento, è qualcosa che viene creata dalla possibilità di credere, nelle nostre percezioni e nelle conferme che di tali percezioni riceviamo dagli altri. Credere dà la forza della realtà a tutto ciò che è psichico, proprio come la percezione dà forza di realtà a tutto ciò che è fisico. Credere è un processo attivo, vitale, influenzato dal desiderio, dalla paura e dalle aspettative, e questo film lo racconta a perfezione. Noi abbiamo bisogno di credere per agire e reagire, e per molta parte del nostro tempo lo facciamo senza una precisa conoscenza. Credere richiede una conferma sensoriale, (un esame di realtà) per diventare conoscenza (siamo tutti dei San Tommaso!), ma allo stesso tempo ciò che viene percepito richiede di essere creduto per essere considerato una conoscenza. François crede che Jeanne abbia bisogno di aiuto, di un cappotto contro il freddo, di una presenza umana che possa scaldarle il cuore, e quando lei lo accetta questa sua fede diventa conoscenza: lui sapeva che lei aveva bisogno, ma lo possiamo dire solo a posteriori. Mentre Jeanne sa che François ha bisogno di lei, lo sa per le sue conoscenze/competenze mediche e quando assiste la nonna, recupera anche la fede/fiducia, in queste sue conoscenze, che aveva perduto quando non erano state utili a salvare delle vie umane. Anche la vita della nonna non può essere salvata, ma qui ad essere salvata non è quella vita, la vita di un paziente, ma la sua, e quella di François che non è rimasto impotente ad aspettare la morte, ma si è attivato secondo le sue capacità e possibilità, per salvarla. Solo così entrambi, alla fine, essendosi impegnati reciprocamente, possono ricominciare a vivere, avendo superato l’angoscia della perdita.