Buongiorno, e benvenuti alla prima rassegna cinema e psicoanalisi di Brescia. Il mio nome è Simonetta Diena e sono una psicoanalista ordinaria della Società Psicoanalitica Italiana. Sono anche membro del gruppo Cinema e Psicoanalisi del Centro Milanese di Psicoanalisi, che da anni si occupa dei rapporti che intercorrono tra le due discipline. E, infine, cosa più importante, sono un’appassionata amante del cinema, vera ragione della mia presenza qui stasera. Il dialogo tra cinema e psicoanalisi sembra essere oggi particolarmente vivace e intellettualmente stimolante, e i rapporti tra le due discipline si stanno sviluppando con uno scambio sempre più denso e complesso. Le storie narrate al cinema rendono possibili le identificazioni dei singoli individui con destini collettivi più ampi, contenuti all’interno della narrazione cinematografica. La storia, individuale e unica del protagonista, permette allo spettatore di proiettare sullo schermo differenti aspetti di Sé. Lo schermo cinematografico diventa allora uno specchio speciale, dove le tragedie passate vengono rilette alla luce della prospettiva presente e attuale. Il cinema possiede, infatti, questa capacità specifica e unica di essere testimone del passato ma anche di portare avanti un messaggio per il presente e il futuro, grazie alla sua particolare temporalità. Il cinema ha sempre offerto una straordinaria opportunità di elaborare le perdite traumatiche quando uno le incontra sullo schermo, “a distanza di sicurezza”. Così possiamo permetterci nuovi significati per vecchi ricordi ed esperienze.

Commenterò adesso il film, alternando considerazioni sul linguaggio cinematografico ad altre più specifiche di commento psicoanalitico.

Two Lovers, film del 2008 del regista James Gray, si svolge a Brighton Beach, Brooklyn, ultima appendice di Coney Island, una delle spiagge più famose di New York, quartiere abitato in grande maggioranza da immigrati ebrei di prima seconda e ormai terza generazione, soprattutto russi. Di fatti il regista, che appartiene a questo milieu, ama girare nella sua Little Odessa questi film dove appaiono rappresentati questi ebrei europei, con i loro riti e le loro appartenenze. Non tutto è esplicitato nel film, che anzi ha nel non detto buona parte del suo fascino. Per esempio l’accenno alla malattia genetica di Tay Sachs, cerebrosidosi genetica ereditaria rara, patologia che è circa cento volte più frequente negli ebrei Ashkenaziti che nelle altre popolazioni mondiali, e che ha impedito le nozze con la sua prima fidanzata, vicenda che poi conduce il protagonista al tentato suicidio con cui si apre il film. Oppure l’accenno alla lunga ospedalizzazione seguita a questo tentato suicidio. Vedremo insieme questi omissis, questi non detti, che costituiscono parte del fascino del film.

Commento

A mio avviso sono tre gli elementi significativi e rivelatori del film, esempi perspicui, trama e ordito del film e del mio commento:

1) L’ambiente urbano dove si svolge, cornice del film, una New York, divisa in due, tra una Brighton Beach popolare, di colore seppia, squallida come possono esserlo le lavanderie automatiche e le scale antiincendio dei film americani, e una Manhattan scintillante e affascinante vista solo in notturno. Tra le due il metrò, con le sue stazioni, le sue gallerie, la sua sopraelevata. Da notare per esempio, per capire ciò che intendo dire, cioè la differenza abissale tra i due mondi, la scena in cui Leonard esce dal metrò con Michelle e vede che lei sale su di una opulenta limousine nera, con la portiera aperta dall’autista. Altro esempio sono le fotografie bellissime di Leonard, nelle quali rappresenta tutto lo squallore urbano circostante, in contrasto con le altrettanto bellissime foto del Barmitzvà, prive però di un qualunque sfondo, solo ritratti di persone felici.

2) Il contrasto continuo nel film tra gli aspetti claustrofilici e quelli agorafilici, rappresentati i primi dall’appartamento dei genitori di Leonard ricco di ricordi fotografie e oggetti portati dall’Est Europa, denso di quella preoccupazione da Yiddishe momme espressa da una Isabella Rossellini (invecchiata forse più di quanto non lo sia realmente) che spia preoccupata il figlio da sotto la porta chiusa. Bellissima per esempio la scena il cui lui si accorge dell’ombra della madre attraverso le due strisce nel battiporta. Gli aspetti claustrofilici sono invece da ricercare nelle scene di folla, esterni alla luce del sole, in cui si vede Leonard camminare in mezzo a una moltitudine di persone, tutte diverse tra loro, tutti anonimi personaggi di un’immensa corale metropoli, dove si annullano le differenze degli individui. Queste scene sono sempre delle lunghe carrellate, in cui si fatica a rintracciare il viso del protagonista, ma si sente solo la sua voce, che parla al cellulare. Questo è un esempio di quello che dicevo all’inizio, delle tragedie individuali che si perdono nell’incontro con altre infinite storie collettive.

3) Infine il bisogno di amare del protagonista, causa innanzitutto del suo tentato suicidio e della conseguente ospedalizzazione e poi in realtà di tutto lo svolgimento del film,. Amore che nel film si rappresenta come scelta tra due poli, la bionda e la bruna, l’ariana e l’ebrea, la tragica e inquietante Gwyneth Paltrow, la tranquilla e domestica Vanissa Shaw, l’illusionaria possibile simbiosi con Michelle, la calda e riflessiva e separata esperienza con Sandra. Sandra rappresenta la tensione verso il familiare e il domestico, verso la crescita e lo sviluppo del Sé, dalle esperienze di fuga dell’emigrazione del passato a quelle comuni di integrazione e differenziazione del presente. Michelle rappresenta la fuga da tutto ciò, anche, se possibile ,con le droghe, la pazzia condivisa, la teatralità dell’Opera, che tra l’altro è la Cavalleria Rusticana, nel film, con la sua tragica conclusione del triangolo amoroso. Michelle è nata in America, è americana, ma non condivide il Sogno Americano dell’emigrante, bensì appare come Manhattan, luccicante ed esteriore, bellissima e irraggiungibile, ma disperatamente infelice e condannata a prendere sempre le strade sbagliate. Alla fine il protagonista non sceglie tra le due, perché anche se ha scelto Michelle, subito dopo la perde, nella metafora ben espressa dalle onde dell’Oceano che continuamente si infrangono sulla spiaggia. Onde nelle quali poi ritrova, attraverso i guanti che gli restituiscono il coraggio e il desiderio di tornare a casa, dai suoi, da Sandra, e dalla vita normale.

Rispetto ai primi due elementi quello urbano e la claustrofobia / agorafobia, vorrei citare dei pezzi di un’intervista al regista di qualche anno fa. “Poi c’è questa cosa dell’essere Ebreo… è sempre di mezzo, anche nei periodi della mia vita in cui non mi sentivo ebreo…Questo essere altrove, combinato al desiderio disperato di essere a casa.” “Io credo che i film abbino molte vite e Sé ed intenzioni. …L’antica ingiunzione ebraica “Ricorda!” è diventata una forza nella mia vita e nei miei film e come tutte le forme di sublimazione è sempre stata lì. Io tento di recuperare il ricordo delle cose passate e in un certo senso sono stato in grado di farlo, con la mia opera.” La sua Little Odessa è popolata da profughi dell’Europa Orientale, che in parte si dispongono come in un teatrino dell’assurdo, pirandelliani Personaggi in cerca di Autore, che bussano alla memoria del regista per trovarvi una rappresentazione/testimonianza della loro passata esistenza. (vedi fotografie appese al muro)Noi che lo guardiamo diventiamo testimoni involontari di un processo di rimembranza e di consacrazione, a nostra volta fotografi e osservatori delle fantasie inconsce del protagonista.

Infine, oppure, se preferite, per cominciare, perché fino a adesso ho solo fatto un’introduzione…, sull’amore, e sui suoi sviluppi, devo e posso dire qualcosa di psicoanalitico.

Spesso nel mio lavoro di psicoanalista mi è capitato di vedere pazienti che avevano bisogno di aiuto perché non riuscivano a superare una persistente e prolungata infelicità causata da un’insoddisfacente e frustrante passione amorosa.
Spesso questi pazienti apparivano bloccati, prigionieri di un investimento amoroso che non poteva trovare soddisfazione, cui non riuscivano trovare uno sbocco possibile, e che ciononostante perseguivano con una determinazione ed ostinazione sospetta. La ragione per cui venivano a chiedere aiuto era per l’infelicità protratta e persistente che questo investimento insoddisfacente e frustrante procurava loro, ma non vi era, in questa categoria di pazienti, il desiderio di rinunciare a questo amore impossibile, e di chiedere pertanto aiuto per questo scopo, quanto piuttosto il desiderio di riuscire a trovare una qualche soluzione illusoria per cui l’amato bene alla fine ritornasse a loro, o si rendesse conto del loro amore e dell’errore che commetteva non corrispondendolo.
L’illusione protratta che questi pazienti mantenevano mi ricordava a tratti quanto spesso assistiamo a persone che si recano a chiedere aiuto a cartomanti, o fattucchiere. Apparentemente vi era il desiderio di uscire fuori da questa aspirazione, ma più profondamente, invece, vi era la determinazione di entrare invece nella vicenda amorosa, riuscendo, in qualche modo, a trovare la strada di accesso a quella persona che sembrava impossibile. L’amore attraversa e permea di sé le storie delle nostre vite. Molti autori, filosofi, scrittori poeti e ovviamente psicoanalisti hanno intrapreso la difficile ricerca della comprensione della natura sfuggente dell’amore, ma nonostante il fatto che l’amore sia stato oggetto di moltissimi studi e ricerche, di racconti poesie e meravigliosi dipinti e addirittura edifici, nonostante sia stato studiato attraverso i secoli e nelle culture più diverse, nonostante tutto ciò, la natura sfuggente dell’amore non riesce mai ad essere spiegata in modo conclusivo. Noi continuiamo a cercare di capire quello che rimane un mistero, “un volo di metafore” come lo definisce Julia Kristeva.
Che cosa è quella cosa che chiamiamo amore? In prima istanza l’amore indica e rappresenta l’esistenza di qualcuno sul quale si rimane impressi, e al quale si rimane attaccati. L’amore è “una violazione della nostra illusione di indipendenza….la misteriosa alchimia della interpenetrazione reciproca con la soggettività dell’altro” Grotstein, 2000) L’amore è quando siamo di fronte ad una normale e adattiva idealizzazione nella quale ciascun amante fa dono del proprio Sé all’altro, “quando c’è il desiderio struggente di essere uniti per sempre con un’altra persona” (Bergmann, 1997). E’ “un punto d’intersezione tra desiderio e realtà. L’amore rivela la realtà del desiderio e crea la transizione dall’oggetto erotico alla persona amata” (Kernberg, 1995).
Fino a questo punto la psicoanalisi non ha ancora sviluppato una definizione dell’amore autonoma. Freud suggeriva che Eros fosse una forza così forte che catturava le sue vittime nella trappola dell’amore, così che l’accoppiamento potesse avere luogo, una sorta di meccanismo chimico, un progetto di sviluppo Darwiniano per preservare la specie. Ma io credo che sebbene la psicoanalisi non abbia (finora) prodotto una definizione propria, ciononostante possa spiegare se non proprio “Che sia l’amore”, almeno ciò che accade a livello intrapsichico quando ci si innamora. Le radici dell’amore sono presenti nella prima infanzia, ma le esperienze infantili primitive, da sole, non sono sufficienti a spiegare le complesse e infinite vicende che la passione amorosa incontra e sviluppa nel corso della vita. L’amore gioca un ruolo centrale nella formazione dell’idealizzazione, e nello sviluppo dell’illusione e della delusione, ma si modifica nel tempo, attraverso l’evoluzione dell’individuo e della società. Come ho detto, Freud non tentò mai di fornire una definizione dell’amore, e per questo faremmo meglio a consultare filosofi e poeti (Green, 2005) o addirittura la famosa aria di Cherubino nelle ”Nozze di Figaro”: “Voi che sapete cosa è amor, donne vedete se io l’ho nel cor” . Molte persone si chiedono se l’emozione che provano è amore, e cercano risposte al di fuori di sé e non al proprio interno. Il più influente ed importante studioso dell’amore è stato Platone, che è anche colui da cui Freud, a mio avviso, fu più influenzato sulle sue teorie sull’amore. Il Simposio di Platone continua ad influenzare le nostre teorie sull’amore. Il potere dell’amore nel Simposio è rappresentato come qualcosa che attraversa tutta la natura e tutti gli esseri umani. Dichiara Aristofane: “L’amore altro non è che il desiderio di stare insieme il più possibile, vicini l’uno all’altro, in modo da non separarsi né di notte né di giorno…congiungersi e fondersi con l’amato e diventare così di due uno. E la causa è la seguente: che la nostra antica natura era quella e noi eravamo interi e quindi al desiderio e alla ricerca dell’intero si dà il nome di Eros” Noi sappiamo molto bene che il desiderio di fondersi, di essere tutt’uno con l’amato può essere inteso come l’intenso struggimento e rimpianto per la primitiva simbiosi con la madre, anche se questa non ha lasciato alcuna memoria. È una brama che non può mai essere soddisfatta in una condizione di amore. Kernberg (1995) sostiene che è necessaria una certa capacità di essere da soli, per potere amare ed essere due. C’è una sottile differenza tra una ricerca autentica per la non dualità e un desiderio sostenuto da fantasie simbiotiche o fusionali. Il desiderio di fondersi con la persona amata può essere una difesa patologica contro la differenza e la solitudine. Certe modalità patologiche di attaccamento insicuro conducono ad identificarsi con l’altro in modo così adesivo che ogni tipo di separatezza e differenza con l’altro viene negata. Questo è a mio avviso, la situazione patologica del protagonista. Perché di patologia si tratta, ne siamo avvisati fin dall’inizio. Quando Michelle gli chiede aiuto lui si sbilancia: “Sono stato tanto tempo in ospedale e credevo che non mi sarei mai più innamorato in vita mia, invece ti amo. Io ti capisco, io sono proprio come te.” Ma non è vero, perché Leonard non ha mai il coraggio di dire la verità a se stesso. Tranne , alla fine quando trova il coraggio d tornare indietro e di ricominciare.


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